Il futuro si chiama shale gas

Giuseppe Recchi spiega come il «nuovo carburante» potrà rivoluzionare gli equilibri mondiali del settore.

Dopo la promessa di Lyndon Johnson, in tempi lontani, di fare degli Stati Uniti un'”affluent society” (caratterizzata da un elevato tenore di vita) e quella di Bill Clinton, nella seconda metà degli anni 90, di attuare una riforma che garantisse a tutti l’assistenza sanitaria (poi inciampata in veti insormontabili), il repubblicano George W. Bush annunciò durante la sua presidenza, sulla scia dei postulati dei neoconservatori, l’avvento di una “home-owners society”, per la possibilità di acquisire, grazie ad apposite agevolazioni, un titolo di proprietà come quello del bene-casa, ambìto da tante famiglie della “middle class”. Sappiamo come sia andato a finire quel miraggio, travolto dall’implosione dei mutui “subprime”. Si sta invece realizzando un nuovo “american dream”: quello, annunciato da Barack Obama, per il conseguimento dell’autosufficienza energetica nazionale. E ciò in virtù dell’utilizzo di un’abbondante risorsa interna, lo shale gas, estraibile a basso costo da formazioni argillose mediante l’impiego di nuovi procedimenti perfezionati di trivellazione e fratturazione. È ormai assodato che si tratta di una vera e propria rivoluzione nell’universo energetico, destinata a generare radicali mutamenti di scenario e di prospettiva, con un effetto domino negli equilibri geoeconomici e geopolitici a livello mondiale. Come si sia giunti a questa svolta impressa dal progresso tecnologico e quali conseguenze di notevole portata sia in grado di determinare è il “fil rouge” di un’avvincente ricognizione, condotta da Giuseppe Recchi, delle vicende più significative che hanno costellato l’evoluzione del mondo dell’energia, a cominciare dalle prime perforazioni dei pozzi petroliferi e dall’irruzione sulla scena di John D. Rockefeller, il pioniere del l’industrializzazione su vasta scala dell'”oro nero”. A rendere particolarmente interessante questa sua analisi, fra la storia e l’attualità, è il fatto che essa si basa su cognizioni e valutazioni puntuali di prima mano. Non solo perché Recchi è dal 2011 presidente dell’Eni, di un “global player” nell'”oil system”. Ma perché conta una lunga esperienza sia imprenditoriale (in quanto appartenente a una famiglia attiva dagli anni Trenta nel campo delle opere pubbliche in vari cantieri all’estero) sia manageriale (ha lavorato per dodici anni quale dirigente alla General Electric). Quanto emerge dalle pagine del suo saggio conferma, in pratica, il tratto distintivo del sistema capitalistico: ossia, la sua capacità di procedere e affermarsi attraverso innovazioni strutturali e salti di qualità. Dopo i prorompenti sviluppi dell’informatica, stiamo perciò assistendo, con lo sfruttamento dello shale gas, all’ennesimo fertile parto della “distruzione creativa” congenita al capitalismo, in quanto tende via via a modificare assetti ed equilibri radicati e a produrne di nuovi. Sta di fatto che gli Stati Uniti giungeranno in pochi anni, grazie alla valorizzazione di questo prezioso carburante, a compiere un autentico balzo nel settore energetico con importanti risvolti nei rapporti di forza economici nel quadrante internazionale. Lo shale gas, che nel 2000 rappresentava appena l’1% del gas naturale consumato dagli Usa, e che nel 2012 ne costituiva già il 25%, arriverà infatti a superare il 50% fra quindici anni. In seguito a questo autentico boom l’America, che ancora nel 2003 avrebbe dovuto importare dal Medio Oriente e da altre contrade gas naturale per coprire la domanda domestica, potrebbe presto entrare in concorrenza con i Paesi produttori da cui prima dipendeva. Inoltre verrebbe a disporre di sempre maggiori risorse energetiche a condizioni vantaggiose, smentendo quindi le previsioni correnti sino a qualche anno fa su una sua deindustrializzazione e sul declino inesorabile del suo potenziale economico. D’altra parte, come Recchi sottolinea, mentre l’incremento della produzione di greggio ha smentito le fosche profezie degli anni 70-80 su un imminente rapido esaurimento delle fonti di idrocarburi, e se poi l’estensione degli approvvigionamenti da una più ampia rete di produttori ha consentito all’Occidente di non dipendere più largamente da un antagonista politico come l’Unione Sovietica e dai Paesi fortemente instabili del Medio Oriente, è oggi del tutto evidente che la disponibilità di shale gas sta cambiando sensibilmente lo scenario del l’energia, che sembrava cristallizzato nei suoi modelli e ingranaggi tradizionali. Di fronte alla rapidità con cui gli Stati Uniti stanno mettendo a frutto lo shale gas, l’Europa esita a intraprendere la stessa strada, malgrado paghi costi elevati dell’energia e possieda vasti giacimenti della medesima risorsa. Ma la Ue seguita a non contare su una politica energetica comune, sia per la diversità di interessi e orientamenti fra i vari Paesi membri, sia per i forti condizionamenti esercitati dagli ecologisti, nonostante lo shale gas produca meno effetto serra del petrolio e del carbone. Rischia perciò di gettare al vento un’opportunità cruciale per il suo futuro economico.

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