Così le “nuove energie” salveranno ancora le balene (e speriamo l’Italia)

Il grande balzo in avanti degli USA sullo shale gas e l’arretratezza europea. Un libro di Recchi, presidente dell’Eni.

“Di balene neha salvate più il petrolio che Greenpeace”. Sembra una provocazione, ma, ci ricorda Giuseppe Recchi, presidente Eni e autore di “Nuove energie” (Marsilio editore) l’unica vera penuria nella disponibilità di un combustibile è stata raggiunta nella metà dell’800 quando le baleniere di tutto il mondo faticavano sempre più a trovare i preziosi cetacei, il cui olio illuminava tutto il mondo sviluppato dell’epoca.

È stata questa difficoltà e il conseguente bisogno insoddisfatto a spingere Mr. Drake a perforare il primo pozzo e inventare l’industria petrolifera nella terra di Pennsylvania. Ora: se è vero che l’età della pietra non è certo finita per mancanza di pietre è anche vero che la scarsità costringe a trovare soluzioni alternative. Solo che, qui sta la contraddizione, la penuria di petrolio e di altri combustibili fossili (gas, carbone e uranio) non si è mai verificata. Anzi paradossalmente la loro disponibilità è divenuta sempre più ampia. Nessuno dubita che le quantità disponibili non siano infinite. Ma se di petrolio, ci dice Recchi, ce n’è per ancora 180 anni, be’, mi pare un tempo abbastanza lungo per trovare soluzioni alternative. Magari per altri motivi compresi quelli ambientali, ma non perché l’oro nero stia per finire. Eppure negli anni 70, complici il pessimismo di un momento storico non certo facile e la grande crescita demografica, le teorie relative al vicino esaurimento di questa e di altre materie prime sembravano difficilmente confutabili. Ma si trascurava un fattore decisivo. Che è poi quello che fa la differenza fra la specie umana e le altre. L’intelligenza e la tecnologia. La capacità di inventare nuovi e più complessi “utensili”, il motore reale della storia umana. Che ci ha permesso di sfruttare risorse sempre nuove e con costi, altra novità, minori. Poi certo la tecnologia non basta, soprattutto per chi non la vuole usare. Il cuore del libro di Recchi è la rivoluzione nelle tecnologie di estrazione, che hanno permesso negli Usa di sfruttare il cosiddetto “shale gas”. Non vi è nulla di più plasticamente chiaro per definire le differenze politiche e culturali fra Usa e Europa, la continua crescita di una e il declino dell’altra, che esaminare quanto è avvenuto in campo energetico negli ultimi anni. Alla vigilia della prima elezione di Obama sono stato spettatore di un dibattito fra i due consulenti dei candidati presidenziali per l’energia, Obama e McCain. Differenze fra i due? Quasi nessuna a parte qualche accento un po’ più green da parte obamiana. Invece una priorità comune: diminuire drasticamente la dipendenza energetica degli Usa e smetterla di rifornire di petrodollari il medioriente, finanziatore in mille modi del terrorismo islamico. Sembrava un impegno elettorale, un lisciamento di pelo della pubblica opinione americana. Bene, nel giro di nemmeno dieci anni gli Usa hanno aumentato esponenzialmente la produzione nazionale di gas e petrolio. Stanno superando ogni altro paese, compresa l’Arabia Saudita, e diventando esportatori netti. Miracolo possibile, grazie a tre fattori. L’innovazione tecnologica che ha permesso di applicare su scala estesa nuove tecniche di estrazione, un regime di proprietà dei suoli e del sottosuolo che ha arricchito i proprietari e facilitato le autorizzazioni, il coraggio politico i mettere la sicurezza del paese al primo posto.

Torniamo in Europa. Il nostro continente, in perfetta solitudine, ha messo al primo posto un’altra cosa: le preoccupazioni climatiche e la conseguente necessità di ridurre le emissioni di CO2. Conseguenza: un apparato burocratico mostruoso, che pretende di regolare le politiche energetiche dei diversi paesi, un’ingente quantità di incentivi distribuiti senza criterio alle fonti rinnovabili, i cui materiali abbiamo importato dalla Cina, nessun passo avanti nella sicurezza energetica.

Lasciamo poi perdere il coraggio politico la cui assenza si è manifestata nella decisione tedesca di chiudere gli impianti nucleari dopo Fukushima. Mentre persino in Giappone vince le elezioni un leader pro-nucleare. Con un risultato, questo sì, paradossale. Il gas sostituisce il carbone negli Usa e riduce le emissioni di CO2. L’Europa, soprattutto la Germania, importa carbone dagli Usa e aumenta le sue emissioni.

Suun lato dell’Atlantico si affrontano i problemi ricorrendo all’intelligenza dell’uomo, all’innovazione tecnologica, alla capacità di intraprendere. Su questo lato, invece, ci attorcigliamo in politiche di comando e controllo, si scoraggiano gli investimenti, si amplia oltre ogni misura la babele dei linguaggi burocratici dei paesi che compongono l’Europa.

Il petrolio ha fatto ricca l’America nell’800 e nel 900. La sta rifacendo ricca oggi. Il costo di un metro cubo di metano, ci ricorda Recchi, è negli Usa un terzo rispetto all’Europa e l’industria manifatturiera, quella che l’Europa e l’Italia stanno perdendo, ritorna in grande stile, felice di abbandonare la mancanza di certezze giuridiche della Cina. Le previsioni sono di tre milioni di nuovi posti di lavoro solo nell’industria petrolifera. Ed essa trascina con sé nuovi investimenti nella petrolchimica, madre di tutte le industrie moderne.

Sapete quanto petrolio consuma quotidianamente un cittadino moderno? Tre litri a testa. Dalla benzina della sua automobile alla confezione di shampoo, plastica derivata dal petrolio, con cui si fa la doccia ogni giorno. Per questo in tutto il mondo trovare petrolio nel proprio sottosuolo è considerata una benedizione. Eccetto che in Italia. Ma questa è un’altra storia.

FONTE: Il Foglio
AUTORE: Chicco Testa