Telecom è pronta alla svolta. Sarò il garante di tutti i soci

Recchi: il mio ruolo è spronare il board, non le deleghe

«Il presidente di una società quotata dev’essere l’elemento di garanzia tra gli azionisti e il management, con una priorità: far funzionare bene il board, che è l’organo supremo della società». Giuseppe Recchi, l’attuale presidente dell’Eni, è candidato per assumere l’incarico in Telecom, indicato dagli azionisti di riferimento raccolti nella finanziaria Telco, a cui fa capo oltre il 22% del capitale e di cui sono soci la spagnola Telefonica, Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Generali. E spiega così il modello a cui intende ispirarsi: «Il consiglio di amministrazione è l’organo sovrano e ogni consigliere, una volta eletto, deve spogliarsi della maglietta di lista che ha indossato e avere come unico obiettivo l’interesse della società, che a sua volta è quello di tutti gli azionisti». La regola vale anche per il presidente? «Vale soprattutto per il presidente, che racchiude in sé la rappresentanza dell’intero consiglio». Negli Stati Uniti il presidente finisce per essere il numero uno operativo… «Il modello europeo, più aperto e più garantista delle minoranze, è diverso. Il piano industriale è preparato dall’amministratore delegato, che lo presenta al consiglio di amministrazione. Quest’ultimo, che opera guidato dal presidente, lo approva e ne affida la gestione allo stesso amministratore delegato». Quindi è sbagliato che un presidente indichi le strategie da seguire? «Le proposte sulle strategie toccano all’amministratore delegato». Il suo concorrente, Vito Gamberale, ha fatto dichiarazioni precise sul futuro della rete fissa e sul ruolo di Telefonica. Doveva risparmiarselo? «Non commento come altri interpretano la prassi di governance. Per quanto mi riguarda penso che l’assemblea non sia il luogo preposto alla presentazione di business plan». Perché? «Il piano industriale c’è, è stato presentato dall’amministratore delegato Marco Patuano, approvato dal board e presentato ai mercati. Modifiche sono sempre possibili, con il contributo di chiunque, e la funzione del consiglio di amministrazione è esaminarle con attenzione. Ci sono liturgie gestionali ben conosciute dagli investitori internazionali che prevedono ruoli ben distinti e che vanno rispettate. Io credo che la liturgia della governance sia sacra. Ruoli e competenze non vanno interpretate nell’interesse di alcun azionista particolare». Come è nata la sua candidatura? «Telecom si avvia a diventare una vera public company. Sono stato selezionato tra diversi candidati per far parte di un progetto industriale che riguarda una delle più importanti aziende del Paese. Una sfida impegnativa e affascinante su cui misurarsi». Per la verità al momento gli azionisti di riferimento continuano a pesare… «Sì, ma nel giro di qualche mese Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Generali usciranno di scena. Lo hanno annunciato e lo faranno. Rimarrà soltanto Telefonica che, come socio al 15 per cento, sarà soltanto un partner industriale. Avrà un ruolo importante, diverso però dall’essere l’azionista di controllo o di riferimento». L’assemblea Telecom del dicembre scorso è finita con una spaccatura netta e la vittoria per una manciata di voti. Ci sarà un nuovo scontro? «Il percorso seguito finora è stato turbolento, ma fa parte del passato. I fatti dimostrano che è stato fatto moltissimo per creare un modello di governance il più aperto possibile. Tutto, o quasi, è cambiato. Le liste per il nuovo board sono di indipendenti a tutti gli effetti, senza conflitti d’interesse e con standard d’integrità, indipendenza e internazionalizzazione. Io stesso penso di esserne la conferma». Può definire il suo board ideale? «Dev’essere realmente indipendente, che significa agire nell’interesse esclusivo della società». Non è una visione utopistica quando in campo c’è un colosso come Telefonica? «Anche gli spagnoli sono d’accordo e hanno votato la nuova governance». Lei, come presidente, chiederà deleghe operative? «Non sono importanti deleghe specifiche, ma la capacità di fare squadra. E io sarei contento di far parte di una organizzazione così ricca di competenze. La funzione principale di un presidente è far lavorare il team dei consiglieri nel modo migliore, cioè come un equipaggio in cui tutti remano dalla stessa parte con l’obiettivo di raggiungere i risultati previsti. Ognuno lo deve fare secondo competenze e capacità personali. E’ necessario anche perché occorre vincere una vera sfida, come quella richiesta dall’operare in un mondo così complesso e in trasformazione continua come quello delle telecomunicazioni». Come vede la Telecom del futuro? «Si tratta di una società che deve raccogliere una eredità importante ma ha conoscenze e know how adeguati. In Italia la privatizzazione ha creato un mercato unico al mondo per competitività, in cui i margini di movimento si sono ridotti. Essere leader, come lo è Telecom, è una posizione sempre invidiata ma altrettanto spesso molto difficile. Io sono un motociclista appassionato e, come tale, non ho dubbi: è più facile vincere allo sprint finale uscendo dalla scia piuttosto che spuntarla difendendo il primo posto». Qual è il rischio che corre una società leader? «Stare davanti richiede uno sforzo aggiuntivo. Chi guida il gruppo deve capire cosa fare e dove andare prima degli altri. Decisioni sbagliate significano non soltanto perdere la leadership ma perfino sparire. Marchi apparentemente invincibili non ce l’hanno fatta e sono spariti dalla faccia della terra. Occorre essere molto attenti a interpretare correttamente le esigenze del mercato. La pena sono conseguenze severe». Sul mercato finanziario italiano stanno arrivando investimenti importanti di capitale americano. E anche in Telecom si sono affacciati i fondi BlackRock con partecipazioni rilevanti. Come lo giudica? «Gli investimenti non hanno bandiera. La vitalità di un’azienda e di un Paese si misura con la capacità di attirare capitali. Ben vengano. Sono sempre un buon segno».

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