Recchi: “L’Europa ripensi la politica energetica”

«Telecom? È fondamentale per l’Italia»

«L’Europa deve rivedere gli obiettivi della sua politica energetica, finora declinati inseguendo unicamente l’ideale dell’abbattimento delle emissioni di Co2 che non ha prodotto risultati. Mentre negli Usa avanza la rivoluzione dello “shale gas”, in Italia ci sono potenzialità inespresse: pochi sanno che siamo un Paese petrolifero. Raddoppiando le produzioni italiane si risparmierebbero 6 miliardi l’anno in acquisti di risorse dall’estero, mentre alle casse dello Stato andrebbero 2 miliardi di diritti minerari. In vent’anni parliamo rispettivamente di 120 e 40 miliardi…». Dopo tre anni passati alla presidenza di Eni, Giuseppe Recchi si prepara a un altro salto. Telco l’ha appena candidato alla presidenza di Telecom, ma con un libro («Nuove Energie – Le sfide per lo sviluppo dell’Occidente», edito da Marsilio) fa il punto sulle trasformazioni di un settore, quello dell’energia, che vive pesanti trasformazioni e nuove minacce.

Per prima la domanda d’obbligo, ingegner Recchi: Telecom…

«Non dico nulla oltre quanto ho già detto proprio alla Stampa: una grande sfida per una società fondamentale per il Paese. Mi fermo qui».

Torniamo all’energia: quanto è pericolosa la crisi ucraina per l’approvvigionamento?

«In questo momento non dà particolari preoccupazioni: stiamo andando verso l’estate, la crisi economica mantiene bassi i consumi di gas, gli altri Paesi di approvvigionamento non danno problemi per le forniture».

E per il futuro?

«Se la crisi tra Mosca e Kiev dovesse comportare l’interruzione delle forniture durante il prossimo inverno e se dovessero sovrapporsi altre tensioni in Paesi fornitori, soprattutto al Sud del Mediterraneo, congiuntamente a un’auspicabile ripresa dell’economia, allora la situazione potrebbe dare origine a una tempesta perfetta».

Nel libro racconta della grande rivoluzione americana dello «shale gas». Cosa è cambiato negli Stati Uniti?

«Grazie alla tecnologia che ha permesso loro di sfruttare giacimenti per anni giudicati non economici, ora sono indipendenti: dallo scorso anno sono il primo produttore al mondo di gas, prima della Russia. Dal 2015 lo saranno anche per il petrolio, sopravanzando l’Arabia Saudita. Hanno un costo del gas pari a un terzo di quello europeo, pagano l’energia quasi la metà».

Cosa può fare l’Europa per colmare il divario competitivo?

«L’Europa non ha “shale gas” in una quantità paragonabile agli Stati Uniti. In secondo luogo da noi è diversa la cultura petrolifera. In 28 stati abbiamo 28 sistemi regolatori differenti, perfino le reti non sono interconnesse tra loro: i rigassificatori presenti in Spagna non possono scaricare l’eccedenza di gas su altri Paesi, come Germania e Italia, in caso di necessità. Manca una politica europea sufficientemente integrata».

In cosa sbagliano a Bruxelles?

«Devono anzitutto rivedere gli obiettivi di politica energetica, che fino ad oggi sono stati declinati inseguendo solo l’ideale dell’abbattimento della Co2. I risultati? Non ci sono: gli incentivi hanno fatto lievitare i costi della bolletta elettrica, appesantendo quella italiana, lo scorso anno, di oltre 12 miliardi. Sul piano ambientale il deprezzamento del carbone a seguito del boom dello “shale gas” ne ha incentivato l’uso, accrescendo l’inquinamento. Né le rinnovabili hanno risolto il problema della sicurezza energetica, essendo per natura intermittenti».

Allora qual è la via d’uscita?

«L’Europa deve sviluppare pragmatismo, con una visione d’insieme, un coordinamento tra le strategie, da quella elettrica a quella industriale, geopolitica e delle infrastrutture».

E in Italia?

«Occorre sfruttare ogni opportunità, a partire dal petrolio che abbiamo ma estraiamo solo in parte. E poi ci sono i temi di diversificazione energetica. Siamo il Paese dove British Gas in 11 anni non è riuscita a fare il rigassificatore a Brindisi, siamo il Paese che forse ha archiviato il nucleare con troppa fretta: in Francia è la fonte del 70% della produzione energetica, hanno prezzi bassi e non a caso ora sono tra i meno preoccupati per le ricadute della crisi ucraina».

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